Nel finale di Zelig, Woody Allen affida allo storico Irving Howe, uno dei personaggi reali coinvolti nella costruzione del suo falso documentario, una battuta in apparenza banale ma in effetti decisiva: “Gli anni ‘20 erano così e, se ci pensi, l’America è poi tanto cambiata? Io non direi”. Era il 1983. Da allora sono passati quarant’anni e potremmo pensare che magari in questo lungo periodo le cose si siano davvero trasformate: oggi il mondo è davvero irriconoscibile rispetto a quello? Davvero sentiamo la favola di Leonard Zelig, l’uomo camaleonte, come residuo di un passato distante?
Invece, ancora, la risposta alla domanda è: “Io non direi”. Zelig propone una radiografia della civiltà occidentale – e della sua capacità di tritare l’individuo per trasformarlo in una massa informe – che funziona ancora piuttosto bene per il nostro tempo. Ai tradizionali ingranaggi (industria, media, conformismo della mentalità…) se ne sono aggiunti altri estremamente sofisticati (la rete, i social…) e impensabili per l’immaginazione umana di allora, anche di quella di una coscienza acuta e profetica come quella di Woody Allen. E ancora il mondo ti impone di appartenergli ed essere non quello che vuoi tu ma quello che serve, qualcosa di utile al funzionamento del sistema complesso che lo tiene in piedi e che ha molto di non umano.
Di questo sistema un organo vitale è la comunicazione, alla quale appartengono fenomeni antichi, ma che si presentano in forme nuove e, a quel tempo, ancora senza nome (oggi li chiamiamo per esempio fake news o shitstorm). L’intuizione di questi fenomeni – tradotta nella scelta di scrittura e regia di mescolare falso e vero in modo a prima vista indistinguibile – dimostra veramente una capacità non comune di guardare lontano, una intelligentissima sensibilità ai nodi problematici di fondo della nostra condizione.
Eppure, anche se il film (vecchio ma, appunto, non troppo) mette a fuoco benissimo alcune dinamiche storiche di fondo della civiltà del nostro tempo, la prima chiave di lettura che Zelig sollecita è quella esistenziale. Il dramma che sta al centro del film è quello personale, che tutti abbiamo vissuto prima o poi: la pressione della società e della mentalità sulla nostra personalità, sul desiderio che ognuno ha di crescere libero e unico e, allo stesso tempo, di essere amato e apprezzato. E su questo Woody Allen ha costruito, grazie al meraviglioso equilibrio tra comico e tragico che è una delle cifre della sua scrittura, una situazione emotiva esemplare: da un lato siamo liberi di riflettere in modo perfettamente lucido sui problemi di cui il film ci parla, dall’altro resta spazio per una compassione sottilissima per la sorte del disgraziato protagonista in cui sicuramente ritroviamo qualcosa di noi e della nostra difficoltà di stare al mondo.
E ancora: è un film in cui si anticipa e prevede la nostra ossessione per il corpo, inventando un potere inspiegabile di trasformazione che oggi ci risulta facile pensare come una specie di archetipo dei nostri tentativi presenti di modellare e scolpire il fisico, tatuandolo, inserendoci aggeggi vari e comunque controllandone la forma attraverso protocolli scientifici di esercizio muscolare. Il sistema che ci fa vivere non è una realtà puramente esterna a noi, ma condiziona sia il nostro spirito che, potremmo dire, la nostra struttura genetica, in modi di cui siamo a stento consapevoli e che in sostanza subiamo.
Infine: Zelig è anche una storia d’amore dolcissima e commovente, tanto più quanto maggiori sono la discrezione e la lontananza dal patetico che ne caratterizzano il racconto: la “dichiarazione d’amore” in cui il protagonista rivela i suoi sentimenti è uno degli esempi più originali ed emozionanti del genere nella storia del cinema. E chi ha visto il film all’epoca forse ricorda il sentimento di tenerezza e ammirazione per Mia e Woody, questa coppia deliziosa, in apparenza ideale – due persone belle, buone, intelligenti e brave – che un po’ tutti abbiamo provato allora. Ebbene: anche ripensare a quello che – imprevedibilmente – poi è successo a questa coppia, al paradosso per cui Woody Allen si è sentito scaricare addosso gli effetti di molte dinamiche malate della comunicazione su cui aveva puntato il dito, ci dice qualcosa sul nostro tempo e sulla nostra condizione: ci fornisce i termini per chiederci, più di quanto già facciamo quotidianamente e in modo più sensato se, in che modi e fino a che punto ci sarà possibile sfuggire al nostro destino storico e sociale di esseri mutanti.